domenica 4 maggio 2014

ROMA, LA SFOGLIATA E LA BASTIGLIA

La sfogliatella te la devi mangiare.
No, grazie.
Sì.
Si allontana, da un vassoio poggiato su un paio di scatoloni prende una sfogliatella. Mi guarda, la spezza e me ne dà metà. Tie’, mi dice. La prendo. E mangia, aggiunge, Che porta bene. Lo guardo, la mangio.
E oggi penso che tanto bene non ha portato.
3 maggio 2014. Sono quasi le quattro quando via Flaminia comincia a riempirsi di pullman, macchine con striscioni, camioncini di bibite, dolci e crackers che verranno venduti fino a notte fonda in carrettini improvvisati con tanto di luce al neon che illumina bacinelle cariche di mezzi litri di acqua fuori dal Gran Teatro. Napoli a Roma è una serie di striscioni improvvisati e enfasi che parte con largo anticipo. Sono dodici, li incontro a ridosso del grande parcheggio di scambio che raccoglie i pendolari del nord del Lazio che confluiscono a Roma.
Sono radunati fuori da un piccolo camper, un profilato che più ci penso e più mi chiedo come facevano a starci in così tanti. Hanno appena finito un barbecue. Qui? Eh.
Sciarpe e magliette celesti, tatuaggi di Maradona, corni portafortuna: c’è tutto quello che ci deve essere. Siamo partiti ieri sera.
Sei la giornalista? Confesso subito, Sono io. Allora domani nel servizio dici che ci hai conosciuto. Tendo ad escluderlo, voglio essere sincera fino alla fine. E allora che dici? Mettiamola così, tratto: Speriamo di poter dire che il Napoli ha vinto.

Un clacson che viene da via Barendson ci interrompe. C’hai fame? Si accavallano l’un l’altro, nel parlare.
No, grazie, Ho mangiato da poco. Qui ci sono le sfogliatelle. No, no. Juve merda, grida qualcuno da dietro al camper. E parte un coro Chi non salta… Ma che c’entra?, chiedo. C’entra sempre, mi risponde un ragazzo che mi da del voi. Mi rivedo nei suoi occhiali a specchio e mi viene da ridere.
Non lo so che cosa ci faccio lì in mezzo ma c’è cuore e si sente in quest’Italia dietro alle quinte. Facciamoci una foto. Ve la faccio io. E tu? Io no. Facci entrare il camper, quello pure è uno di noi. Conto fino a tre e scatto.
Quasi nove ore dopo ripasso in quello stesso punto. C’è il caos di un dopo concerto e una lentezza strana nei passi di chi va verso le macchine. Le sciarpe al collo non sanno di festa e i carretti con le luci al neon in mezzo attraversano la strada come si fa in Marocco, senza guardare e senza fermarsi. Roma città assediata ha reso le armi un’altra volta. Con la politica e le istituzioni che non sanno dove guardare, fermi sugli spalti, inebetiti e inconsapevoli che la miccia esplosiva che cova sotto alle ceneri del malcontento urbano e sociale esplode senza preavviso. Un anno l’agguato incontrollato è a piazza Colonna, l’anno dopo fuori dallo stadio. Ci sarebbe tanto da dire sui volti fotografati della classe dirigente. “Presi in contropiede” sembra l’espressione più adatta al contesto. Disarmati è la più indicata.
Mi torna in mente il titolo di un libro che ho visto di recente in libreria "Guardati dalla mia fame", sulla doppia rilettura (e riscrittura) di un fatto specifico e grave. Come dire che c’è sempre una seconda verità. E realizzo che i fatti di Roma a quaranta minuti dall’inizio della finale di Coppa Italia all’Olimpico sono un tifoso ferito e gravissimo, un arresto per tentato omicidio. E molto di più.
Osservo le foto, sia quelle che girano adesso - il capotifoseria Genny che sa che cosa vuole e stabilisce il da farsi, il premier incredulo e indeciso, tifosi e polizia divisi da un guardrail - e quella che conservo sul mio cellulare. Sono due Italie che non comunicano, una che ci crede ancora. E una che ha dato tutto per perso. Una che ha la forza di imbarcarsi e il cuore di comprare anche i dolci per festeggiare in anticipo, e l’altra che si arma contro un nemico che non si sa più chi sia. Purché ci sia.
In mezzo resta una città oltraggiata e, ancora una volta, offesa. Indifesa, divisa in due. Senza niente in mano più da poter offrire se non le immagini in giro per il mondo di disordini che ormai la raccontano più del turismo. Panem et circenses, si diceva una volta da queste parti. Adesso neanche più questo. Perché il pane costa (e io ti do al massimo ottanta euro), e il circo – se lo vuoi – te lo fai da solo.
E infatti.
Solo che adesso c’è un’inversione di rotta, e il circo – sembra di sentire gli affamati – non te lo faccio più nell’arena per farti gustare lo spettacolo. Ma fuori, per fartelo rimporre. E il come lo scelgo io. E a quel punto neppure una sfogliatella, figuriamoci il pane, può addolcire una vittoria amara.
Questa mattina fuori dal Gran Teatro ci sono i resti di un sabato che doveva essere di calcio. C’è una macchina bruciata e nessun camper in festa.
Se la Bastiglia si avvicina, le facce sono tante: belli e brutti si mescolano. Bisogna guardarsi dalla loro fame, figuriamoci dalla loro rabbia.

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