giovedì 10 marzo 2016

I FIGLI DEI FICHI (ma soprattutto delle fiche) - 3/5

I FIGLI DEI FICHI (MA SOPRATTUTTO DELLE FICHE)

di Chiara Lico


Sempre io, Michelino Burghèss. Burghèss è con l’accento sulla è. Burghèss.
Sentite quello che mio cugino Berni mi ha raccontato ieri: che la sua maestra è entrata in classe in ritardo perché la sua due ruote non passava tra il Suv del padre di Jacopo e la mini della madre di Nicole. Al che è partita la centesima mail dalla direzione indirizzata a tutti i genitori della classe per ricordare che non si parcheggia nei posti riservati ai disabili.
“Ma se già sapevano chi era stato….”
“Che c’entra”, ha detto Berni, “E comunque almeno la parte la devono fare. Mica se la possono prendere con il vero colpevole: quella è gente che paga, non va indispettita”.
Giusto. Mi sa che l’ecumenismo è questo, alla fine. Ma non lo dico. Lo penso e basta: sono dislessico, io.
La scuola di Berni è una scuola di fichetti, i figli dei fichi. “Soprattutto le fiche, volevo dire le madri sono uno spettacolo pazzesco”, ha detto un giorno zio Dodo a papà. Al che mi sono messo a origliare come pochi al mondo.
“Tutte gnocche che pare che c’hanno vent’anni”.
Mio padre ha alzato la testa dal Laipad.
“Gnocche che vengono a scuola con la pelliccia, ma sotto hanno la tuta”. Zio Dodo era tutto contento. “Due labbra così, due tette così, i capelli sempre a posto. Firmate, palestrate, unghiate”.
Mio padre lo ha fissato e ha scosso la testa, “Ancora così stai?” , e giù sul Laipad.
Grande pa’.
Lo capite perché mi piace da morire, papà? Perché lui è uno di quelli che “Io no alla scuola privata, dove se paghi ottieni tutto”. Noi siamo democratici, ve l’ho detto. Tant’è che andiamo nella scuola del quartiere. Certo entrarci non era facile, ce la siamo sudata la gavetta: la filippa ha preparato almeno dieci, dodici cene e alla fine un dirigente che conta oggi, un prete domani, io e Sofi siamo entrati nella scuola pubblica statale dei figli dei politici, dirigenti, imprenditori, vip e calciatori.
“Non una scuola qualsiasi, bimbi”, disse la mamma il primo giorno di scuola sia a me che a Sofi: “L’ambiente conta, quindi tranquilli che anche voi conterete”.
Frasi così che tu rimani zitto per non fare la figura di quello che non capisce mai, anche perché sei dislessico, no?
A scuola di Berni i genitori vanno tutti eleganti. “Durante la messa si guardano tra loro come sono vestiti”, mi ha raccontato. Da noi invece i genitori accompagnano i figli in felpa e jeans. Gente semplice, dice papà. Ai piedi le All Star.
“I figli dei fiori coi soldi, dicono i miei”. Indovinate chi è? Esatto, Genny.
M’è sembrato un insulto borghese e alla fine anche questa volta non gliel’ho potuta far passare liscia. Ho dovuto dargli un mappino. Bello pieno, ha avuto le cinque dita stampate in faccia per un bel po’.
Comunque qualcosa che non quadra c’è, devo essere onesto. Perché non è possibile che tutti gli amici dei miei genitori stappano e bevono bottiglie di vino che costano tre-quattro cento euro, (l’ho sentito che lo dicevano, una sera) e ce ne fosse uno con i pantaloni senza strappi e con i gomiti dei maglioni senza buchi e toppe. 
“Quelli che fanno la rivoluzione con la smart fuori dalla brasserie, ridacchiano i miei”. Sì, sempre Genny. Occhio nero.
“Mi sa che devi cambiare amico”, mi ha detto Sofi, “Se no ti sbattono nel carcere minorile in terza elementare”.
Zitta, ho pensato, Violetta de noantri.
Mio padre si fa le sigarette con il tabacco, dice a tutti che l’ha imparato in campeggio. La verità è che gli fanno schifo quelli che fumano il sigaro, li chiama gli assetati di ville con finale di settimana in salsa barbecue. Questo non lo so che significa anche perché barbecue non dico perché sono dislessico, ve l’ho detto.
Ieri mio padre s’è alzato dal divano ed è andato vicino alla porta di casa. Ha lasciato il Laipad tra due cuscini. Questa è la volta buona che esce e si va a fare una passeggiata, ho pensato.  È un sacco che non mette il naso fuori di casa. Sul balcone, vabbè. Ma che è un’uscita?
Sì, avete indovinato: ho preso il Laipad.
Mi tremavano le mani.
Apro la custodia.
Chissà che cosa mi credevo, m’ero immaginato mondi fantastici e surreali. Tipo che dentro c’erano maghi, orchi, streghe e fate bellissime. Il mondo dei sogni e del futuro. Che io ci entravo e poi ci rimanevo intrappolato dentro, come Bastiano Baldassarre Bucci della Storia Infinita, che quando a scuola l’ho preso in biblioteca non volevo più riportarglielo per quanto mi era piaciuto. Beato lui, Bastiano.
Invece macché. Tutto un grafico con cifre e nomi che da qualche parte avevo già sentito, con le scritte dare e avere, codici, simboli..
Sento la porta che si apre e si chiude e dopo qualche secondo riappare mio padre.
“Che stai facendo?”, mi chiede guardando il Laipad.
“Niente”.
“E’ la prima e l’ultima volta”.
Faccio segno di sì.
Io me ne vado in camera mia e lui si risiede sul divano.
Io volevo il mio, di Laipad. Se ce l’avevo, adesso non lo toccavo questo. Tutta colpa della filippa che m’ha cestinato gli indizi per quel vecchio di Babbo Natale. Appena posso un po’ di sale nel caffè non glielo toglie nessuno.
Ma perché sta sempre dentro casa, non lo capisco proprio. Però almeno oggi abbiamo parlato, mica è poco. Apro la finestra della mia camera e senza farmi vedere allungo il braccio. Capovolgo il bicchiere di plastica. Rovescio tutta la pipì che ci ho fatto dentro, anche oggi. Giuro che prima o poi ci riuscirò a prendere quei due poliziotti che stanno fermi impalati fuori dal portone di casa mia notte e giorno. Mica perché m’hanno fatto niente, no. È solo che uno in qualche modo deve sfogarsi. Comunque, completamente a buca non sono andato: rientrava quella di sopra con il barboncino. Speriamo che gli aveva appena fatto la toletta se no non c’è gusto. 

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