lunedì 14 aprile 2014

FACCIAMOCI UNA DOMANDA. ANZI, UN'INTERVISTA

C’era una volta l’intervista. Grillo parlante che faceva capolino, appollaiato sulla spalla del giornalismo di prima, la sua posizione – forza maggiore – era scomoda. Eccome. 
Che si trattasse di merce rara era intuibile già tanto tanto tempo fa; che fosse materia in via d’estinzione è diventato chiaro nel tempo. Che adesso sia ipotesi di lavoro, è una certezza assoluta. 
Generalizzare non è mai elegante né utile, si sa. Eppure che quel che c’era una volta, adesso non c’è più è un dato di fatto incontrovertibile quanto doloroso. Regola universale. 
Poi, è anche vero che c’era una volta chi le interviste le faceva. 
Ognuno ha i suoi. Di libri sullo scaffale, di romanzi che lo hanno segnato, di volumi che hanno contribuito a renderlo quel che in nuce già era e quel che oggi è. Romanzi, racconti, saggi. 
Molti hanno in casa alcuni dei testi più conosciuti di Oriana Fallaci. Pagine che hanno fatto il percorso e preparato i cambiamenti di questo Paese. 
Alcuni hanno anche Intervista con la Storia. Ogni giornalista dovrebbe averlo studiato. Chi Intervista lo ha letto, ha acquisito - con quelle pagine – informazioni, nozioni e conoscenze. Ma soprattutto, a saperli individuare, i rudimenti-gioielli di un tesoro necessario alla professione. 
Di certo non la capacità, quella è un’altra storia. Ma il metodo aveva buone possibilità di filtrare. 

Nella memoria sarebbero restate vive per sempre le domande incalzanti rivolte ai grandi del mondo, l’irriverenza sfrontata, le mille sigarette accese, fumate, spente, riaccese, rifumate, rispente, che cadenzavano un confronto via l’altro. E sì che gli intervistati non erano persone facili. Ma neanche la penna della Fallaci era comoda. Eppure il lavoro veniva avviato, svolto, concluso e pubblicato. 
Perché? Erano “tempi diversi”? Anche se questo dei tempi diversi rischia di essere troppo spesso un alibi discutibile. Oltretutto, che cosa vuol dire diversi, quand’è ovvio che fossero tempi tali per il solo non essere attuali? 
O forse perché ballo e, solo dopo, in mostra c’era un professionista? 
Quanto era preparata la giornalista Fallaci, quanto era pronta a reagire alle domande di chi non vedeva l’ora di metterla in difficoltà? Quanto poco era ripiegata su se stessa, e disposta – invece – a dar battaglia per vedere affermare le seconde verità? 
Bisognerebbe porsele, alcune domande, ogni tanto. Addetti ai lavori e non. Intervistarsi. Auto rivolgersi degli interrogativi e rimanere fermi, lo sguardo fisso, ad aspettare le proprie risposte. Magari anche un registratore acceso. Una di queste, ad esempio, potrebbe essere se sarebbe mai stato possibile intervistare figure di rilievo senza essere un professionista del settore. E che cosa arriva ad affermare, un Paese, quando si affidano lavori delicati a chi non è abilitato a svolgerli. 
Chiediamocelo. 
E poi chiediamoci anche se valuteremmo lecito che un cantante entri in sala operatoria per operare un malato, che un ingegnere (anche solo per una sera) gestisca le cucine di un ristorante al posto di uno chef, che un fioraio visiti un paziente al posto di un dermatologo. 
Snocciolato il rosario degli interrogativi, diamoci una risposta. 
A lume di naso suonerebbero tutte come anomalie. Gravi e inaccettabili. Perché in un caso ne andrebbe della salute del cittadino, nell’altra del buon nome del ristorante… 
E allora come mai non ci chiediamo, anzitutto che fine ha fatto l’Intervista e subito dopo che fine hanno fatto gli unici titolati a farle? Chiediamoci anche questo, e proviamo – se ce la facciamo – ad ascoltare l’unica risposta possibile. Con buona pace di chi il diritto all’informazione lo tutela per tutti. Intervistati, intervistatori e cittadini (compresa la loro salute).

1 commento:

Caigo ha detto...

Verrebbe da porsi una domanda:
Ma a chi frequenta la "scuola di giornalismo" vengono insegnate le basi per imbastire una buona intervista?
A volte capita di assistere a delle interviste dove sembra che al giornalista manchi la "fame di sapere". Tutto troppo scontato, si va dal compiacere ed al volersi far compiacere dall'intervistato fino all'opposto con quelle provocazioni che ben raramente danno i loro frutti. Diciamolo, quante sono le interviste passate alla storia? quelle che hanno fatto emergere "grandi verità". Credo ben poche.
Questo forse dipende dal fatto che anche nel giornalismo (come in tutti i settori)i veri talenti, i fuoriclasse, sono ben pochi.
Però (e qui sta il senso del mio commento) se un giornalista incaricato di scrivere un pezzo su un piccolo fatto di cronaca non si preoccupa di verificare veridicità e dettagli della vicenda e poi pubblica un articolo basandosi sulle chiacchiere con qualche infermiere/poliziotto (in pratica diventa un...romanzetto di fantasia),mi chiedo, se un domani passasse alle interviste cosa ne verrebbe fuori? Dettagli omessi? Parole reinterpretate? L'intervistato potrebbe non riconoscersi più? ;-)
Queste mie perplessità sono il frutto di piccole esperienze personali del passato dove i "fatti" sono stati pubblicati in modo distorto e senza verifiche.
La sostanza non cambia, lo sottolineo, non si trattava di fatti eclatanti e alla fine...va bene così. Ma se i fatti vengono già "romanzati" per le piccole cose immaginare che il vizio si ripresenti anche nelle occasioni più importanti è quanto meno lecito. Per la cronaca come per la politica e, di conseguenza, per la cara vecchia intervista.